L’Impero Austro–Ungarico aveva affondato le proprie radici nella civilissima ed organizzata potenza austriaca, il cui centro di potere era Vienna e nella fiera e forte nobiltà ungherese, che a Budapest aveva la propria Capitale un proprio Parlamento, proprie leggi, una propria moneta.
Non solo nella simbologia dell’aquila bicipite, ma anche nella realtà, si ripeteva il dualismo dell’Impero Romano, allorché il potere dovette essere diviso tra Roma e Bisanzio, ma unico restava “l’Impero”, nella sua identificazione con il mondo civile.
Le altre nazionalità sottomesse, seppur attive e rappresentate nei due Parlamenti, avevano un ruolo e diversi gradi di autonomia a seconda della loro utilità economica o militare.
Fiume, per decenni, aveva goduto di grande floridità economica, in quanto al centro di un sistema di comunicazioni che ne aveva fatto lo sbocco al mare di un territorio vastissimo. Essa costituiva un c.d. “corpus separatum”, con ampi margini di autonomia anche politica. In città, inoltre, sino allo scoppio della guerra, la convivenza tra italiani e magiari era stata ottima. I primi erano prevalentemente dediti ai commerci ed all’impresa, i secondi, risultavano inseriti nei gangli vitali della’Amministrazione e negli Uffici pubblici; i Croati, invece, erano rimasti piuttosto emarginati, essendo prevalentemente dediti a ruoli esecutivi nelle industrie ed attività cittadine o nell’agricoltura, nei territori limitrofi.
Su questo scenario si era abbattuta la guerra mondiale con i suoi venti di indipendenza.
L’ autodeterminazione dei popoli, per i sudditi delle diverse nazionalità che avevano convissuto nell’Impero, era ormai un principio molto diverso rispetto a quello su cui avrebbe dovuto basarsi il nuovo ordine mondiale, dopo la fine della guerra, nella originaria concezione del Presidente americano Wilson.
Non a caso, in un momento in cui l’Impero rappresentava ancora una grande potenza belligerante, il 10° dei 14 punti di Wilson, al centro del suo messaggio al Congresso americano, nel gennaio 1918, prevedeva ancora un ruolo fondamentale per l’Austria – Ungheria, seppure in un mutato contesto, in cui sembrava dovesse affermarsi l’autonomismo delle varie comunità nazionali.
Ma all’avvicinarsi dell’epilogo, la scena era profondamente mutata.
Sul finire del 1918, la morte di Francesco Giuseppe, le gravi difficoltà economiche, la svalutazione e l’altissimo tributo di sangue nell’inutile offensiva del Piave, avevano minato profondamente il morale degli austro-ungarici e compromesso l’unità dell’Impero.
Lo stesso imperatore Carlo I d’Asburgo, era colpito dalle rivendicazioni di indipendenza dei rappresentanti delle diverse nazionalità, nel Parlamento austriaco, all’apertura dei lavori all’inizio di ottobre. Tanto, da essere sul punto di aderire, egli stesso, all’idea della trasformazione dell’Impero in una federazione di stati nazionali.
Non poteva prescindere, però, dalla ferma ostinazione con cui i Magiari, difendevano l’integrità dei territori dipendenti dalla Corona.
D’altra parte, diverse nazionalità, in primo luogo i Croati, aspiravano alla completa indipendenza; contrari ad ogni forma di federalismo con Austria ed Ungheria e, vedendo di buon occhio la separazione della Slovenia dall’Austria, semmai avrebbero accettato la nascita di un distinto Stato, federato anche con la Serbia, resasi indipendente dopo il crollo della Bulgaria.
Già da alcune settimane, si era costituito a Zagabria il Consiglio Nazionale dei Croati, Serbi e Sloveni dove, in una situazione di sostanziale latitanza del potere imperiale e di assenza di ogni tipo di censura, la propaganda croata non mancava mai di far riferimento alla Croazia-Slavonia "con Fiume".
A Fiume città, l’idillio tra Ungheresi e Italiani era finito con lo scoppio ed il procedere della guerra, di pari passo con una sorta di magiarizzazione che aveva interessato non solo le istituzioni ma anche la lingua nelle scuole e nei documenti pubblici , i nomi delle strade e così via. In sostanza erano venuti man mano sparendo gli aspetti di tolleranza multietnica che per lungo tempo avevano costituito uno dei tratti caratteristici della città.
Questa situazione aveva favorito la nascita di un movimento irredentista, i cui esponenti si riunivano clandestinamente presso le sedi di associazioni sopravvissute allo scioglimento durante il periodo bellico: la Società Canottieri Eneo, presso la diga foranea del porto e la Società Filarmonico-Drammatica, vicino al Municipio.
A partire dalla metà di ottobre gli avvenimenti cominciano a precipitare.
Infatti, l’Imperatore Carlo pubblica il manifesto, datato 16 ottobre in cui accetta il “principio nazionale”, aprendo la strada alla trasformazione dell’Austria in Stato federale ed alla completa indipendenza dell’Ungheria, ma al tempo stesso proclama l’integrità dei paesi della Santa Corona di Santo Stefano, rendendo impossibile ogni accordo tra Magiari e Croati.
Due giorni dopo, nella seduta del Parlamento ungherese il Presidente del Consiglio dei Ministri Wekerle difende con convinzione l’unità statale, contrapponendosi alle rivendicazioni del rappresentante dei Rumeni d’Ungheria. Nella seduta, tuttavia, si nota l’assenza dei rappresentanti croati, i quali non ritengono di aver più nulla da spartire con il Regno d’Ungheria. Interviene, invece, il deputato di Fiume on. Andrea Ossoinack, con l’intento di protestare, nel rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli, contro ogni proposito di assegnare Fiume ai Croati, in quanto “non fu mai croata, ma anzi fu italiana nel passato e tale rimarrà anche nell’avvenire”.
Il discorso , riferito dalla stampa, suscita scalpore a Fiume, dove gli irredentisti proseguono le proprie riunioni segrete, dando anche vita a un comitato ristretto di fedelissimi.
In città, del resto, si respira un clima di profonda incertezza: i soldati di guarnigione sono quelli del reggimento n. 79, il Reggimento Jellacic, in gran parte di nazionalità croata, reclutati fra gli Slavi del Litorale.
Il 23 si svolgono gravi disordini. Un gruppo di soldati, fattasi dare una grande bandiera croata a Susak, sobborgo croato dell’Oltreponte, attraversa il fiume Eneo e la inalbera sulla vicina caserma di piazza Eneo, dove sono acquartierati.
La polizia di Stato interviene ma non riesce a controllare la situazione, in quanto i militari si oppongono armati e danno vita ad un conflitto a fuoco.
Nel pomeriggio, poi, alcuni soldati raggiungono il Palazzo di Giustizia e, sopraffatti i guardiani, liberano alcuni detenuti e devastano gli uffici. Altri si avviano sparando verso il Corso, ma all’altezza di piazza Dante vengono affrontati da militari in assetto da combattimento capeggiati dal maggiore Pietro Teslic, addetto al comando di piazza.
Teslic arringa i soldati in lingua slava convincendoli a desistere da azioni violente, garantendo loro l’impunità.
L’episodio non ha di per sé una notevole valenza politica, ma è significativo della frattura ormai esistente tra Croati e apparati dello Stato.
La popolazione, spaventata, ha assistito a distanza. Il podestà Vio ottiene rassicurazioni circa la sicurezza di tutti i cittadini e fa pubblicare, nei giorni seguenti un invito a mantenere la calma.
Ma la situazione ai vertici è tutt’altro che confortante.
Il 28 il Governatore Zoltan Jekelfaussy convoca i comandi militari e si rende conto che la guarnigione, in grande maggioranza composta da Croati, non si opporrebbe ad un’invasione croata fatta in nome del Consiglio Nazionale di Zagabria; anzi, vi sarebbe il rischio che anche gli honvéd ungheresi vengano aggrediti qualora si opponessero in armi all’invasione.
Jekelfaussy si decide ad interpellare telefonicamente il Governo centrale, ma Wekerle, già dimissionario a seguito degli incidenti del 23, gli consiglia di evitare qualsiasi conflitto.
Non ritenendosi più in grado di esercitare la propria autorità, il Governatore si appresta alla partenza, protetto dai suoi honvéd, prima che si chiuda ogni via di fuga. Cede, quindi i poteri al Municipio, tramite il podestà Vio, con la raccomandazione di trasferirli ai Croati, senza opporvisi, in modo da evitare inutili violenze.
Vio, però, filo-italiano, decide di mettersi in contatto con le organizzazioni segrete e l’indomani, davanti ad una cinquantina di persone, delinea crudamente la situazione: la città è abbandonata a se stessa dagli ungheresi, incapaci di difenderla; il Governatore è in procinto di fuggire; la polizia di Stato si sta dissolvendo; la guarnigione si considera a disposizione del Consiglio Nazionale di Zagabria.
Le redini dell’incontro vengono prese da Antonio Grossich e vengono assunte alcune importanti decisioni: il Consiglio Comunale è sciolto, ma Vio viene confermato nel suo ruolo; egli ha il compito di tentare un accordo che eviti il confronto armato e cioè che consenta di rimettere ogni decisione alle potenze alleate, la cui vittoria sembra ormai imminente.
I presenti, inoltre, si costituiscono in Comitato cittadino. Esso, uscendo da ogni forma di clandestinità, prende il posto del Consiglio Comunale e nomina suo Presidente Antonio Grossich; si trasformerà ben presto in Comitato Nazionale Italiano di Fiume. E’ nominato anche un comitato ristretto di otto membri con l’incarico di assistere il podestà Vio nell’esercizio delle funzioni statali, mentre si procede alla formazione di una Guardia civica.
Quando la riunione si scioglie le strade sono ormai piene di popolo esultante che inneggia all’Italia e porta al petto coccarde tricolori; si notano anche uomini in divisa che hanno tolto dai cappelli la K di Karl.
Vio inizia immediatamente le trattative di cui è stato incaricato, prendendo contatto con il più autorevole dei Croati, l’avv. Riccardo Lenac. In quel momento non esiste, da entrambe le parti, la volontà di far precipitare la situazione.
Anche il locale Comando militare acconsente ad un accordo, non avendo interesse ad opporsi con la violenza alla maggioranza dei cittadini fiumani, nell’attesa che la situazione al fronte evolva e le decisioni delle potenze alleate prendano corpo.
I croati accettano, infatti, la richiesta del podestà, il quale rivendica l’autorità di mantenere l’ordine pubblico tramite le guardie civiche, facendo pesare il fatto che la polizia, da sempre incaricata di tale ruolo, era stata statalizzata, meglio regificata, solo in conseguenza degli eventi bellici. Ai Croati, tuttavia, resta demandato il controllo delle ferrovie e del porto.
La mattina dello stesso 29 ottobre, tuttavia, a Zagabria la Dieta ha proclamato la costituzione di uno Stato indipendente, rompendo definitivamente con Austria ed Ungheria e riconoscendo il Consiglio Nazionale Croato-Serbo-Sloveno. Da lì è anche partito l’ordine di prendere il potere a Fiume.
Alle 15,30, infatti, un piccolo corteo, preceduto da un reparto del Reggimento Jellacic, baionette innestate, muove da Susak; dopo una sosta al Circolo croato di lettura, dove espone una bandiera, prosegue verso il Palazzo del Governatore. Qui Jekelfaussy sta ancora radunando le proprie masserizie.
Alcuni ufficiali entrano senza alcuna difficoltà e dopo un breve colloquio, ottengono la consegna del Palazzo, esigendo un verbale appositamente sottoscritto.
Finisce così, ingloriosamente, la permanenza dell’autorità ungherese nella città di Fiume, mentre prosegue lo stato di grave incertezza per la popolazione: Italiani e Croati si fronteggeranno, temendosi reciprocamente, sino al 17 novembre, data dell’occupazione interalleata.
Da tale data la città sarà occupata dalle potenze del C.O.I.F.
Nota: Buona parte delle notizie sono tratte da "XXX ottobre 1918" di Attilio Depoli, n. di luglio-dicembre 1958 della Rivista "Fiume". La Società di Studi Fiumani, con il suo Archivio Museo Storico di Fiume e la Rivista, rappresentano una fonte eccezionale per tutti gli studiosi.